Miracolo

La mia pancia era tesa come pelle di tamburo quando iniziarono i sintomi pre travaglio. Le chiamano contrazioni di Broxton o false contrazioni. Dicono che in qualche modo preparino il corpo della donna al parto. La prima volta che ne ebbi una non pensai a tutto questo, tutt’altro. Mi sembrò così vera quella contrazione, come se non potesse esserci qualcosa di più forte. Ebbi la stessa sensazione la prima volta che feci l’amore e neanche allora mi venne in mente che potesse esserci di meglio. Che so, un altro uomo, un altro modo, un tempo di maturazione. L’amore era l’amore, uno e unico, bello come nessuno mai e nessuno prima. E come tutte le prime volte, anche quella volta fu facile pensare che fosse caviale, quando erano uova di lompo. Non feci in tempo a comprimere una mano sul ventre, che subito una fitta lenta lenta iniziò a salire dalla spina dorsale sempre più su, sempre più forte, come un serpente srotolato, fino alla mia testa. La paura avrebbe potuto stringermi al collo in qualsiasi momento fino a soffocarmi. Ma dal sanscrito quest’energia così potente non è la morte, bensì è la vita. È strano come la paura appartenga ad entrambe. E ad entrambi, a me e a Glauco. Quella notte restai sveglia, mentre i dolori si impossessavano del mio corpo, a guardare il soffitto. Sentii un liquido gocciolarmi giù per la gambe gonfie, appiccicate di sudore. Ebbi l’impressione di un allagamento, ma non dissi nulla. Non svegliai Glauco. Non mi avrebbe creduto. In fondo era colpa mia se lui e tutti quanti non credevano ai miei lamenti. Non mi ero mai lamentata, fino ad allora, fino a un attimo prima. Neanche quando la fame mi aveva svegliato di notte. Il Professore diceva che le voglie erano una scusa inventata dalla gente comune per mangiare per due. Eppure qualcosa era cambiato. Come mai all’improvviso tutti quei cibi raffinati che prediligevo mi disgustavano? Perché il pesce mi sembrava insulso? Tutto quello che desideravo era gelato al chilo, ghiaccio, e che Glauco si togliesse quelle maledette cuffie per parlarmi d’amore. Non per fare l’amore, ma per parlare d’amore. Come quella sera in cui non volevamo lasciarci e allora restammo sui gradoni del bar, con le serrande abbassate. Non sentivamo il freddo delle tarde sere estive, ma l’imbarazzo, l’emozione, il desiderio di essere tutto quello che non eravamo mai stati fino ad allora. Come essere padre. ‘ Non ho mai voluto un figlio, ma voglio dartene uno’, disse. Si dice che quando amiamo tanto, il nostro desiderio più grande è realizzare il desiderio di chi amiamo. La cosa che mi impressionò di quello sconosciuto era che voleva darmi tutto quello che non gli avevo chiesto. Ma a lui non importava. Non gli importava della mia età, non gli importava del suo non credo che stava vacillando né delle mie certezze che erano a pezzi. Tutte queste contraddizioni, insieme, avevano raggiunto un attimo di splendore eterno che chiamammo miracolo. Chissà se la vera fede non sia proprio mettere in dubbio tutto, avvicinarsi alla morte, per nascere un’altra volta. In quel momento non eravamo più noi: stavamo morendo, beati, in uno sguardo solo, per le felici aure pregne di vita. La luna si stava vestendo di luce, proprio mentre eravamo lì, nudi e morti, ma mai più vivi. La bellezza di quella scena somigliava ai ruderi di una dimora storica con i suoi giardini incolti e le colonne annerite dal tempo. C’era tanto spazio, navate di silenzi assordanti e mura affrescate che illuminavano l’amor ancor gentile che così pareva, ed era. Non esisteva un tempo che potesse dirsi troppo, e i suoi capelli di bionda lanuggine mi facevano pensare che anche la desolazione della solitudine è baciata dal sole. Allora lo baciai e da lì a noi non smisi più di farlo, fino alla fine, quando eravamo finalmente nati ed avevamo pianto. Da qualche parte avevo letto che quando nasce un uomo non sa ancora di esserlo: il neonato piange e si dispera perché non sa dove sta andando. ‘Aiutami’, grida, ‘consolami, non lasciarmi solo’, pensa. Anche io e Glauco eravamo appena nati e non avevamo nessuna idea di dove quell’amore ci stesse portando. Eppure volevamo amare, ed essere amati. Come una coppia di calzini spaiati, ci sentivamo diversi e lontani da noi, nonostante fossimo così vicini. Mentre un fiume lambiva le pareti della mia mente e delle mie cosce, fui pervasa dal terrore che tutto scorre e che saremmo passati anche noi. Il sangue, dunque, era la morte o era la vita? Noi lo avevamo unito nel nostro miracolo. Ma in quel momento, fra santi e speranze, io gridavo ‘faccia gialla’. Avrei voluto rifugiarmi nel mio stesso corpo, aspettando che il sangue si sciogliesse e venisse giù insieme alle mie paure, ma restai immobile. Feto, avviluppato dall’altro lato del letto.

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