Io e Penelope ai tempi del Coronavirus

Sono giorni strani.

Le strade non hanno nessun odore e semmai dovessi associare un odore alla desolazione non sarebbe buono.

Sono giorni strani, si.

Lo erano anche per Penelope, mentre tesseva il tempo.

L’ho sempre guardata con sottile ironia, come l’audace imperfezione guarda la noia perfetta dei giorni tutti uguali e si burla di lei.

Ho aperto una rubrica non troppo tempo fa intitolata “Non sono Penelope (ma neanche poi così male)”, in cui parlavo della bellezza decadente e romantica della vita, Donna fragile e forte, che diventa, senza aspettare miracoli.

Ecco, quella vita è il coraggio di essere qualcosa di diverso, perfino da ieri, perfino da noi.

Oggi pensavo a Penelope, alla sua attesa che oggi è la mia, quella delle donne di ieri, che si inventavano la vita e l’amore.

Forse il romanticismo è nato in testa per truccare la vita, farla bella, come Penelope e la sua attesa disattesa da un vecchio che non era più Ulisse, ma era l’amore.

L’amore vero è questo : è il tempo, la sua cura, l’attesa che ci rende clementi con la vita e, forse, con noi.

Non è l’amore mellifluo e superfluo, anche se per anni ho apprezzato il suo sapore.

Finché non ho capito che non tutto quello che ci piace fa bene.

Non è l’amore un nervo scoperto, un pugno nello stomaco, un lamento.

Quello è struggimento e non posso dirlo inutile. In fondo scriviamo della nostalgia e della dimenticanza, del futuro a cui non crediamo, come i social fossero cassetti dove nascondere sogni proibiti.

E intanto viviamo la vita senza attese.

Il coronavirus ci ha uniti tutti nella paura dilagante.

A volte mi viene da pensare che la sofferenza sia più iconica della bellezza, o è solo che lo struggimento ci ricorda volti che abbiamo amato, il silenzio attonito delle strade e la desolazione delle Chiese vuote che sanno di pace.

Come se dopo il niente ci fosse qualcosa a dare un senso all’attesa, l’odore di un nuovo giorno vecchio – asincrono rispetto ai giorni che pensavamo di aver visto crescere – chissà, forse è un’altra primavera.

Le strade bagnate segnano passi e passato, sogni appassiti e la speranza che le foglie trovino un posto dove acquietarsi.

Questo senso buono di solitudine è il concetto chiave di oggi, forse del domani.

Quando tutto sarà finito nasceremo ancora e il tempo vecchio avrà uno spirito nuovo.
Ci inventeremo case e cose, lavori nuovi, e quattro mura non saranno più una gabbia.
La libertà è la responsabilità di diventare ogni cosa e sentire di avere sempre un posto in questo mondo.

L’unica certezza di ieri era il mio matrimonio di domani.

Dietro agli affanni di una casa e una Chiesa, mi sentivo già al suo fianco.

Certo che studio ancora.

Lui me l’ha detto di non accontentarmi di essere qualcosa che assomiglia a me, ma non sono io.

Tutta questa storia ha disvelato la doppia faccia del mondo, la sua bellezza e l’orrore, che confonde i giorni di sole con la notte e il suo buio.

È per questo che di notte resto sveglia a pensare: penso alla bellezza, alla felicità come esercizio di stile, che non intendo lasciare.

Forse io resterò in attesa, come Penelope, forse aspetterò il mio vecchio arrivare sotto casa a dirmi che è tutto finito.

Che domani è arrivato e tutto è bianco come la vita fosse una sposa.

Come la vita fossi io proprio, che non mi assomiglio, sono.

Allora penso al lavoro, alle opportunità della lentezza che giova le idee, che non rimanda a domani i progetti.

Sono a casa e ho un computer, questo non mi impedisce di parlare col mondo.

Il mondo è in una scatola, è la parola conservata come quei sogni in un cassetto, dove nessuno però scava così a fondo nell’intimità.

Questo è il lavoro dei freelance, di chi resta a casa e produce.

Quindi è anche il lavoro delle casalinghe.

E se invece restassimo in posa sulle scale, con un libro in mano, a contemplare il vuoto e le attese con lo stesso struggimento che non ho mai detto inutile?

Sarebbe anche il lavoro dei brand.

Reinterpretare il sogno, il lavoro, in un calendario pirelliano dove il tempo è la casa, siamo noi.

Quello che voglio dire è che io sono del sud, dove molte donne sono sottopagate ( anche gli uomini, ma questo tipo di uguaglianza non inorgoglisce), oppure passano il giorno a scopare a casa. Con la scopa in mano. Sempre vergini di occasioni e orfane di idee secondo loro buone.

Sono di un posto dove – fino a ieri – nessuno diceva zona rossa, ma tutti sapevano dell’emergenza.

Ieri ho sentito il Presidente Conte parlare di un’Italia senza distinzione di zone, un’Italia in cui la paura unisce.

Qui a sud la tristezza a volte è carnivora e meno iconica di una cena di lavoro al sushi.

Eppure siamo un’Italia unita.

Allora me ne resto a casa a tessere le parole, come una Penelope dei tempi moderni, che aspetta il ritorno del tempo, ma non di sé.

Io mi sono trovata già, ho trovato la bellezza e la sua allure iconica e senza tempo.

Voglio che sia un lavoro.

Voglio che sia per sempre.

Voglio sposare il mio uomo e il mio sogno, quello di una vita Donna che viaggia da casa e non prende un treno per tornare giù.

Aurora Ariano.

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