Rubrica – Non sono Penelope (ma neanche poi così male)
La gente ci si stipa nei social come fossero centri commerciali, vetrine ravvicinate che neanche più butti l’occhio.
Il lusso dell’ostentazione e della superficialità è ormai obsoleto, va di moda la qualità.
La venerazione della bellezza stropicciata dalla normalità, dalla storia dove anche io mi posso ritrovare.
E cambiare.
Per molto tempo ho seguito le vicende della coppia più famosa dello star – system, i “brangelina”.
Belli, perfetti, vite e case da sogno, ma non era tutto lì.
Hanno abbracciato un impegno umanitario, loro, nel lavoro e nella vita, adottando bambini sottratti alla povertà.
Mi sono sempre chiesta cosa li rendesse così speciali.
Non sono l’unica coppia bella del sistema, ma, le falle, le imperfezioni alla luce del sole, rendono umani gli dei.
Essere umani significa essere come tutti quanti, pensare che il bello e il buono non sono lontani dal male e dalla disperazione.
Come quei bambini adottati, che non hanno conosciuto la normalità neanche quando sono stati sottratti dalla miseria, neanche il lusso è tanto vicino al normale.
Per caso il lusso fa della donna – della Jolie in questione – una donna laida e corrotta?
L’umanità non ha niente a che fare con lo status sociale, è una propensione innata a negoziare con noi – in maniera neanche poi tanto amichevole – e sperare che il bene vinca.
Restargli comunque accanto.
Abbiamo assistito al crollo impietoso di un’idea.
La facciata della coppia perfetta è crollata, sotto agli occhi del mondo.
La donna perfetta era una donna che voleva sentirsi fragile e forte e si nutriva di un’apparenza vacua che non la dava a campare.
La donna perfetta era una donna che viveva i suoi disagi e i suoi fantasmi.
La donna perfetta era una donna che chiedeva amore, quello di donna, quello di mamma, quello di un futuro costruito con le scelte – non sempre condivise – relative a sé.
Mi sono chiesta – quando ho sentito della notizia del suo intervento, atto a diminuire l’elevata probabilità genetica di tumore – che cosa avrei fatto al suo posto.
Molti – ricordo – definirono un azzardo, l’asportazione dei seni in via del tutto preventiva.
In quel momento pensai a come una donna, che aveva costruito la sua carriera sull’immagine, avesse poi deciso di dare il suo corpo tutto a un futuro che non era più solo suo.
“Voglio che i miei figli abbiano una mamma a lungo”.
La Jolie non è nota per essere una salutista, molti ne parlano come “quella che si è rovinata con l’anoressia”.
La ricordo in abito lungo nero, bellissima, nonostante l’evidente magrezza.
In quell’occasione non si parlava d’altro che del suo disagio che oscurava una donna ora imperfetta, relegando allo stesso imperfetto il tempo della sua ora.
“Era bella”.
La rete è un amante infame che ti venera e poi ti sputtana.
Ma la mente umana è abbastanza grande da contenere i sentimenti tutti.
Non è razzista, la mente.
La mente vede tutto e nonostante tutto ama.
Io ho sempre visto una bellezza lunga oltre uno stacco di gamba, forse la fragilità è così affascinante perché sa riempire il cuore, al di là degli occhi.
La pelle dura, coriacea – quella che chiamo coraggio – a volte è una donna smagrita dalla vita, che non s’arrende; un uomo con un ‘esperienza forte; un vecchio che campa, ma racconta la vita.
Eppure vedo che la gente si ostina a cercare una coerenza in tutto quanto, una continuità, come se il mondo tutto fosse troppo impegnato per fermarsi a conoscersi oltre una foto, un selfi, un’immagine.
È importante la percezione di chi siamo : l’immagine veicola quello che stiamo dicendo in un’istantanea, ma chi lo dice che, chiusa la porta, i tacchi non stiano stretti anche a me.
Audrey Hepburn amava cucinare per gli amici a casa.
L’avreste mai detto?
Nessuno lo dice neanche di me.
Nessuno che mi conosca oltre quell’immagine, quella percezione, quel lato che non sia quello che ho mostrato, più o meno consapevolmente, a uno spicchio di mondo che m’ha spremuto la vita fin’ora.
Un uomo rimase colpito dalla disinvoltura della calza rotta che sfilavo davanti ai suoi occhi.
Mi disse che una volta si era macchiato – in un’occasione che stava aspettando – ed era tornato a casa a cambiarsi.
Di quell ‘occasione ricorda la non occasione, la frustrazione.
La calza rotta ha rattoppato una conversazione, cucito l’imbarazzo in un sorriso buono, in una trama, in quello che oggi sono qui a raccontare.
Anche io vivo la smania di essere perfetta, ma il mio animo si ribella al mondo rigido del finestrino che ripara dal vento, il tetto è aperto sotto al cielo.
Vite asfaltate che non corrono libere, io mi fermo al mare, a spogliarmi l’impazienza di vero celata alla perfezione.
Aspetterò il ritorno del sole come si aspetta il ritorno di un amore, in una nostalgia già sciolta, che resta luccichio sulla pelle.
Il viso scuro che deve al sorriso il suo senso incostante, nessuno saprà chi sono veramente.
Nessuno che si fermerà a guardarmi mentre esco dall’acqua, a scrollarmi scampoli di vanità poco indulgenti.
Nessuno che non conosca l’abnegazione celata dietro a un viso e a una parola, la fatica di essere una ragazza che non pensa a niente, mentre caccio l’intensità dagli occhi e fingo che sia mare.
Torno a pensare alle donne belle, che camminano sulle passerelle e sulle spiagge, siamo tutte dive per un giorno.
Dive e donne, così ci mostriamo, in posa plastica davanti al mondo, guarda la morbidezza scolpita dentro al marmo.
Nonostante tutto, continuo a pensare che la bellezza laverà l’orrore dagli occhi, segretamente romantica, ma non ditelo al mio orgoglio.
È che sento nell’aria il profumo di un’umanità spietata mischiato alla crema, alla sabbia, ai libri girati, che ancora mi chiedo cosa raccontino, mentre in giro leggo la vita.
Gli uomini sanno che cos’è la devozione.
Sanno che la disperazione non è tanto lontana.
Sanno che l’intensità è una discesa senza frenata, a meno che non abbiamo di meglio da fare.
L’amore, per esempio.
Ci vuole calma e una buona ragione per restare normali.
Se pure riuscissi a restare quella che sono, a snudarmi l’anima davanti a tutti, sono sicura che nessuno guarderebbe oltre il corpo.
Guardami pure uscire dall’acqua, con l’imbarazzo che mi scivola addosso, poi, poi guardarmi negli occhi.
Il sole è meno violento, resto ad asciugarmi i capelli e il disimpegno.
Ora che troverei qualcosa da dire, da fare, non m’importa di sbagliare.
Non sono ancora pronta per la quiete, cerco ancora una pace che faccia rumore.
Freddie Mercury è scomparso.
Resta il suono intimo di una voce che fa l’amore col mondo, in un gemito di vita.
Non ho necessariamente qualcosa da dire.
Non sono quella che riempie gli spazi.
Io voglio significare il tempo e temporeggiare il significato, in un momento di placido niente.
Così, me ne resto ferma, con i capelli ancora bagnati e il mare dentro agli occhi, lasciando a chi mi guarda l’arduo compito di tirare fuori un’espressione che sia diversa.
È sufficientemente estate, ma l’amore in eccesso l’inverno non mi toglierà.
Su Instagram la gente segue vite perfette, ma io fatico ancora a seguire i miei pezzi che non tornano interi.
Allora saranno bozze, scatti, sguardi furtivi.
Dicono che la vita è questa e lo fanno come fosse una condanna.
Puntualmente, quando sono fuori e guardo gli altri che mi guardano mentre io li guardo, capisco che nessuno ha quello che vuole.
Ma proseguiamo, randagi in cerca di un’occasione buona.
Una vita dedicata.
Come quella di uno scrittore, di un ballerino, di un genitore, di chiunque regali le proprie emozioni al mondo con sacrificio.
A faccia scoperta si affrontano demoni e flash.
Una foto è la fatica di essere come non prima e come non piú.
Mentre mostro una faccia neutrale, mettimi il mare negli occhi : paure esotiche, isole felici, tutto quello che resta addosso, la libertà che ancora annuso e seguo.
Aurora Ariano