Rubrica – Non sono Penelope (ma neanche poi così male)
Gli ultimi fiori che ho ricevuto sono stati per un addio che profumava di rose rosa.
Quell’amore sbiadí il rosso a terra e si sparpaglió in mezzo ai petali caduti.
Dentro a quei fiori, annusai la libertà.
Toccai ancora una volta l’amore e il suo velluto pesante, sulla mia pelle di seta che chiedeva una carezza.
Una rosa rosa non era una carezza, non era l’amore.
Era il giorno del mio compleanno e la fine era già nell’aria.
Disse al fioraio che non amavo le rose rosse, fu il suo modo per restituirmi l’amore in una scatola.
La sorpresa più grande che un uomo possa fare a una donna è quella di non fare sorprese.
Le donne non amano chiudere gli occhi, passata la notte.
Eppure, nonostante il dolore, trovo che certi addii siano più dignitosi di altri.
Con un fiore non si sbaglia mai.
Appassisce il fiore, come siamo appassiti noi, resta solo la sensazione sotto le dita di qualcosa che conosciamo, di familiare.
Resta un senso di riconoscenza, chi ha amato saprà trovare l’amore in ogni cosa, senza che l’amore venga di nuovo a bussare a casa, in un biglietto che non spiega la vita.
Accanto alla tomba di mio nonno cresce una rosa.
Ho pensato che in qualche modo avrebbe sentito quell’odore, in un tempo e in un odore altri, in un ritorno di bellezza.
Dove finiscono le cose che non durano, dove siamo finiti noi?
Le cose che restano fuori da un tempo che non è più nostro, almeno abbiamo vissuto più di un giorno.
Esiste per caso un limbo in cui tutto quello che non è stato esiste – senza angeli né diavoli – ad accogliere l’umanità?
Ho capito che era un amore più grande, quando la bellezza ha salvato il dolore, è rimasto solo il buono.
Ce lo dicemmo in macchina – di conservare il buono – non pensavo di chiuderlo in una scatola, a far essiccare l’odore in una vita in rosa.
Il passato resta dov’è, in un’immagine, un odore, che non ho più bisogno di sentire, è un senso buono che mi porto dentro.
Ci penso, sì, alle promesse infrante.
Ai matrimoni che hanno sporcato il bianco.
Ma i vestiti negli armadi non sono scheletri : se apro le porte, la bellezza è intatta.
È un bouquet di rose seccato con cura, per conservare l’amore.
Penso alla bellezza di quelle rose, di tutte le cose caduche, che non sanno finire, in questo paradosso il senso della vita.
Cammino per strada e cerco la bellezza in mezzo alle cose, alla case, nelle Cattedrali, nel pallore delle turiste bionde che non fa paura, nell’odore del pane.
La gente dice di non voler comprare un piacere di poche ore.
Penso che, in generale, non sia così.
Basta un minuto per sbagliare la vita e capirla un minuto dopo.
Me lo ripeto ogni volta che accendo l’ultima sigaretta e caccio il pensiero più doloroso, che m’ammazza, mentre mi accorgo che i piaceri hanno la stessa durata dei propositi buoni.
Perché l’intensità è concentrata in un momento solo?
Ai matrimoni tripudio di rose, tutti che applaudono gli sposi, il giorno dopo nessuno si chiede dove siano finiti i fiori.
Che cos’è l’amore?
Forse è un fiore, ma non vorrei fosse il piacere di un giorno solo.
Amo i fiori.
Lo so perché non esiste fiore che io preferisca.
I fiori sono gioia per gli occhi e colore per la casa, bellezza che nasce e cade e, in quella decadenza, la vita sembra una donna che cresce.
Sono belli, i fiori, come tutte le cose decadenti e romantiche, come tutte le cose vere.
Una folata di vento mi ha strappato l’emozione, ma avuto la cura di lasciarmi il suo brivido addosso, così avrei saputo riconoscerla ovunque.
Ho seccato la bellezza con cura, in una morte che è vita che rinasce.
Quei petali starebbero su un vestito che ha trovato ampiezza, conservando trasparenza.
Peccato non faccia la stilista.
Trovo sia importante che la moda svolti verso un nuovo concetto di bellezza.
Quanti animali sono morti per vendere la vita, in un vestito?
Perché invece non trasformare la morte in vita?
Lanciando fiori, bellezza e un messaggio buono.
È anche un modo per restare in contatto con la terra e con la pelle, dubito che siamo davvero connessi.
Siamo la rosa fresca, il primo appuntamento, il sogno infantile.
Io partirei dalla fine.
È più nostalgico, ma, chi ha una fine, ha sempre una storia da raccontare.
Le parole conservano il valore inebriante di quel momento.
Loro possono essere per sempre, noi no.
Noi siamo apparenti, fallaci, letti sfatti dopo il romanticismo.
Che poi scrivere mi diverte, nonostante gli struggimenti, intendo.
Anche quando non ho niente da dire, mi basta restare in un pensiero.
Tutto questo è molto simile all’amore.
Voglio che sia per sempre.
Le promesse se le porta il vento.
Il vento saprà fare dei silenzi parole incenerite e noi le lasceremo andare, stringendo in pugno il niente e una preghiera.
Pregai anch’ io, di notte.
“Fa che non passi, fa che la bellezza resti”.
Sono sempre stata in qualche modo consapevole di me, ma ho sempre avvertito una mancanza, una pressione dentro, un odore, forse caffè che sale.
Non è più la convinzione, che fa salire solo orgoglio e ceneri, questo odore è percezione.
È l’amore che vedo nella cura del niente, in una bellezza che sa ancora riprodursi, dove la gente cammina sopra i rami secchi.
Com’è successo che io sia arrivata fin qua?
Sconcertante, ma confortevole, partire da qualcosa che ti porta altrove.
È il preludio delle opportunità, lingua di sabbia che non dice nulla, semplicemente si palesa.
Ho toccato la terra umida, lambita da qualcosa che aveva scurito i granelli in fango e ho riconosciuto la stessa dignità che si riconosce alle vite esposte.
Chi vuol vedere il sole, rischi la pioggia.
Anch’io mi sono trovata nel fango, ferma, immobile, in un pensiero sterile.
Storie limacciose che bloccano in dolori stagnanti, come si guarisce dalla nullità?
Buttando cibo alle anatre, almeno questa è la mia visione della semplicità.
Della gente che si cura col sole sul viso, annusando la vita che passa.
I sogni e le prospettive ha vita di rose, annuso l’odore andato, ma, se alzo gli occhi, vedo che il sole durerà di più.
In fondo sono grata al tempo che cambia sempre tutto : le vite, le stagioni, i fiori.
Certe cose non cambiano mai e, in questa riconoscenza, restituisco chi sono a chi ero.
Dietro di me la scia di chi sono stata, coda di una vita cucita dal destino in un’estensione, che ora resta lì, tagliata, a muoversi ancora.
Questa volta senza un alito di vento, abbiamo già annusato l’odore nostro in una coincidenza, chiamalo pure destino.
Parlami, parlami ancora.
Dammi una parola da restituire al vento insieme a una promessa.
Hai detto di amarmi.
Così, sarei la donna della tua vita.
Fa un certo effetto sentirlo.
Mi rendo conto che le parole non sono mai inutili, se pure fossero soltanto parole, sarebbero quelle giuste.
Pensavo fosse morto, l’amore.
Invece sento ancora il suo odore.
Io che ho trattenuto l’emozione ed è ancora tutta lì, vedi, l’acqua dei fiori.
Annusa questa freschezza, la nostra, mentre ti vengo incontro con un vestito a fiori.
Non saprai mai da dove viene questa bellezza, ma saprai riconoscerla.
Gli amori nuovi nascono da ceneri sparse insieme alle memorie, foglie secche in attesa di una nuova primavera.
Aurora Ariano
“Foglie secche in attesa di una nuova primavera”
Aspettiamo, allora
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