Urban jungle

Il tempo sintetizza tutto.

Lo trovo ingiusto.

Ma forse questo è il preludio della modernità.

Parole asciutte, lampi che arrivano prima che il senso suoni, tuono.

Le foto sono attimi di momenti interi e i curriculum come fanno a spiegare quanta fatica ci sia dietro ad una laurea.

Un pezzo di carta.

La carta è la vita.

La vita va in pezzi.

Torno a prendere la carta.

Un fazzoletto.

Un documento.

Un testamento.

Ma non è sempre la fine.

I quaderni nuovi iniziano sempre con una calligrafia composta, pulita.

Verso la fine la fretta li sporca.

Le notizie importanti sono appuntate fuori dalle righe, asterischi che solo io so collegare al senso mio, certe volte neanche mi capisco, ma l’odore di inchiostro mi ripaga.

Sono nata a cavallo fra due generazioni.

Ho usato la penna come una bacchetta magica.

Avevo un diario segreto, ma il mondo ha più segreti di me.

L’ho scoperto quando il tempo ha messo le parole dentro ad una scatola, poi in una scatola più piccola e la penna non mi è servita più.

Avevo un telefono.

Questa è solo un’altra forma di comunicazione.

Sono dentro a questa fusione.

Che poi “fusion” è una parola di tendenza: nel cibo, nella moda e nell’arredamento.

Tutto cambia e nel minimal style ritroviamo la bellezza della semplicità.

Un ritorno, ritorno al futuro, tanto la felicità a ritroso é solo nostalgia.

Neanche più la mia, visto che non ho rinunciato a niente.

Il vissuto, oggi, si chiama formazione.

La vita prima del punto é il sospiro della fine, ma io vado punto e a capo.

Scrivo ancora un po’.

L’innovazione è tutto quello che ridimensiona il niente in qualcosa che si crea.

Un’idea, una vita, un’immagine, una parola che riempia la bocca di sapore.

Nessuno mi convincerà mai dell ‘esistenza del niente.

Quest ‘aria rarefatta, vedi, è tutto quello che non mi so spiegare.

Si chiama connessione, questo sentire che entra in contatto, che affonda le mani nella carne, così non ci stacchiamo più da noi.

Fare sport è uno dei modi migliori per conoscere se stessi, per non perdersi di vista.

La vita mi distrae, ma io mi seguo.

Ecco, l’approccio ai social dovrebbe seguirsi prima di seguire la gente, è già faticoso ricambiarsi, ancora una volta.

In effetti non è chiaro cosa cerchiamo dal mondo, se invece il senso nostro non sia quello di dare.

Eccomi, sono qui.

In pasto al mondo per un assaggio di me che sia ogni volta diverso, calendario del tempo mio fra buio e luce.

In questa urban jungle, in questa città che è la tecnologia, portiamo un po’ di casa, un noi autentico.

Piante verdi sullo sfondo di pareti asettiche, comunichiamo personalità.

Tutto quello di cui abbiamo bisogno è un angolo – un’oasi di pace – per sentirci al centro.

Si parla molto di alienazione, ma noi sappiamo ancora parlare.

Spiegami l’amore, ti saprò rispondere.

La poesia è la sintesi dei sentimenti, ma non trascura il tempo, non passa l’amore con il vento e col tempo.

Dov’è finito il sentimento?

Qualcuno se lo chiede ancora.

Cercatelo sopra ai tetti, fino a che sarà notte, fino a che sarà poesia.

Quella gatta sul tetto miagola forte alla luna, si lascia guardare, ma resta dov’è.

La sento, la guardo, mentre sono nella stanza.

Forse sono come lei.

Quella ruvidità che sottendeva la voglia mia d’amore – lingua di gatto – leccai la vita asciutta senza troppe moine.

Semplicemente mi diede fiducia, il niente attuale – mentre il tutto mio mi aveva tradito già – e io mi avvicinai.

Mi lanciai nell’estraneità affollata della modernità e in mezzo alla giungla seppi camminare con sguardo fiero.

Nuda.

Non ho temuto la morte e l’alienazione, il mondo era il mio habitat e io non volevo estinguermi.

Salviamoci da questa convinzione, da questa assenza di comunicazione.

Sappiamo ancora parlare.

Serve una voce ferma per parlare a se stessi, senza temere lo smarrimento.

Qualcosa che ci distragga dalle parole, per un sentire che valga di più.

Uno sguardo imbambolato, innamorato della vita e dell’amore.

Così nasce l’amore di sé: se non mi amassi, non avrei niente da dare al mondo.

Tutto quello che facciamo sui social è parlare con noi stessi allo specchio, in un momento di vanità o di verità.

Si chiama posizionamento – questo riconoscersi in mezzo alla giungla della modernità – anche se oggi lo chiamano “brand”.

Ha a che fare in primis con noi stessi e con la possibilità di affrontare il cambiamento.

Ci penso, seduta sull’altalena del terrazzo.

Penso al mio futuro.

Di fronte a me, una rivista spiegazzata girata sul tavolino in ferro battuto.

Le colline sopra alle macchine.

Le piante.

La vita fuori.

Lo sguardo dentro.

Urban jungle é tutto quello che sento, è il cambiamento, la vita che scorre in un telefono, per strada o dentro alla mente.

Aurora Ariano

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