Ho sognato una morte libera

Rubrica – Non sono Penelope (ma neanche poi così male)

Ogni mattina, il rumore della barca che il signor Gino capovolgeva, fuori al negozio, mi faceva intuire che mancavano pochi passi alla scuola, così alla sua fine.

L’odore della corda e della rete doppia che venivano giù, dalle travi della tettoia in legno, si alzavano fino alla mente con lo stesso tonfo, e io pensavo alle telline che d’estate raccoglievo insieme a babbo.

Lui mi aveva insegnato a nuotare, diceva che chi amava il mare moriva libero.

E, in effetti, quel senso di libertà me lo sono portato dietro in ogni respiro di iodio, aria di mare, aria di vita.

A Ischia i ragazzi aspettavano che la campanella suonasse per correre giù al porto, togliersi le magliette e saltare dagli scogli.

Qualcuno si bagnava i vestiti, ma aveva sempre una maglietta di ricambio nello zaino, nessuno avrebbe contestato quella scelleratezza salina che più la leccavi e più sentivi gioia.

Noi ragazze ce ne stavamo in disparte a guardare, quasi con ammirazione, godendo di riflesso quell’emozione bagnata, per noi era sudore, almeno fino a che non sarebbe arrivata l’estate vera e i lidi avrebbero aperto le porte al mare.

Io frequentavo le spiagge libere, con i miei per lo più, ma mi lasciavano andare anche con le mie amiche, i tempi erano già cambiati, eppure io volevo quella libertà.

Forse, fu il divieto di deviare che mi spinse, quella mattina in particolare, a fermarmi fuori al negozio del signor Gino per qualche istante, prima di procedere in direzione contraria.

“Ragazzina, che fai ancora qui? Non è ora di scuola?”

Le parole si erano affacciate sagge, insieme al vecchio, quasi come se l’eco di quel tonfo e il suo significato nella mia mente fossero rimasti li, intrappolati nella rete, esposti agli occhi di tutti.

“Ho dimenticato un libro a casa” – fu l’unica cosa che riuscì a dire, prima che il rossore mi tradisse.

Sgattaiolai via, indietreggiando come un gambero, quasi come a scusarmi con il negoziante che mi aveva visto crescere, mattina per mattina, e che mi stava guardando andare via con aria stupita.

Non sapevo bene cosa volessi fare, l’istinto mi guidava prima ancora che potessi pensare, camminai a lungo fra il profumo di gelso e quello delle imbarcazioni e mi fermai a guardare, come fosse cosa nuova, il paesaggio che mi circondava.

Le case colorate, tutte diverse fra loro, sembrano essere un blocco solo, borgo stagliato sulle stradine di basoli, che s’affacciava sul mare.

Entrai in un bar e chiesi un gelato.

Forse, il più lungo della mia vita.

Mentre guardavo il mare lo leccavo e sentivo la stessa gioia di quelle mattine fra compagni, così mi tolsi le scarpe e mi bagnai fino alla vita.

Da quel giorno sono passati molti anni, il negozio del signor Gino non esiste più, al suo posto un’altra bottega.

A pochi passi dalla scuola che non mi aspetta più sebbene io non aspetti più l’estate, la vetrina riflette i miei capelli bianchi.

Mi fermo qualche istante a guardare i souvenirs con aria distratta, mentre un giovane s’affaccia rivolgendomi la parola:

“Signora, come posso aiutarla?”

Resto in silenzio ancora qualche secondo, nella mia mente ancora vedo quello sguardo saggio, il tonfo di una me capovolta dall’età che si è aggrappata alla pelle e alla vita, l’eco sciolto dalla rete del tempo si è tuffato in mare.

Probabilmente, qualche ragazzina assetata di libertà un giorno lo pescherà insieme alla telline, col suo babbo.

“Può darmi un gelato?” rispondo al giovane gentile.

“Non vendiamo gelati, mi dispiace”, replica il ragazzo, guardandomi con un’ aria strana che mi torna familiare.

“Grazie lo stesso”.

Proseguo senza esitazione in direzione scuola, la vita ancora bagnata e la gioia salina di morire, un giorno, libera.

Aurora Ariano

3 risposte a "Ho sognato una morte libera"

  1. Certe parole lasciano addosso profumi e sapori, solo quando sentiamo, qualcosa di aleatorio, come un sentimento o un ricordo, diventano carne viva o sono prova che noi lo siamo.

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