Rouge

Rouge.

Era il colore del vestito che aveva acquistato quella mattina.

Almeno la  commessa così l’aveva chiamato, convincendo Laura  che suonasse  più romantico.

D’altra parte  allo specchio si vedeva stranamente bella.

– Che fa, lo prende? Esclamò la commessa, mentre Laura era ancora intenta a guardarsi.

– Vorrei tenerlo addosso -sorrise- lasciando che le tagliasse l’etichetta.

Uscì dal negozio e iniziò a passeggiare. Quella mattina il colloquio, l’ennesimo, era andato male.

Era andata a vivere da sola troppo presto, forse per dimostrare ai suoi di valere qualcosa.

“Cosa avevo alle spalle? A parte un mucchio di storie e di lavori instabili e occasionali?”

Voleva sentirsi bella, come tutte le donne, e quella mattina si era premiata. Ma non si sentiva meglio.

Da ragazzina, quando qualcosa la tormentava, se ne andava a passeggiare per ore.

Era un modo per liberarsi dai pensieri.

Anche quella mattina fece lo stesso.

Con incedere lento e il collo rivolto in alto, esaminò attentamente il borgo in cui eri cresciuta, come a scorgerci qualcosa di nuovo.

Anche le case sembravano impassibili allo scorrere del tempo.

In cima alla collina, il mastodontico castello, da cui partiva la cortina muraria   intervallata da torri medievali, abbracciava l’intero  borgo di Gradara.

Tutto era spaventosamente uguale  a sempre.

Neanche un’ombra di novità ad infrangere vecchi schemi.

Quel vestito rosso era la cosa più nuova che si portasse appresso.

– Bel vestito…

Una voce sorprese Laura alle spalle.

Era un uomo sulla cinquantina, dall’aspetto giovanile e lo sguardo sicuro, come la stretta di mano che un attimo dopo le tese, di fronte alla sua faccia perplessa.

– Come?! Sussurrò con voce flebile.

– Bel vestito, le ho appena detto . Voleva essere un complimento, mi sorrise .

– Rouge. La commessa me l’ha consigliato, dice che il rosso mi dona.

– La commessa è saggia. Rouge come l’amore. Comunque, io sono Carlo. Piacere di conoscerla.

Laura abbassò lo sguardo e si girò una sciocca di capelli dietro l’orecchio.

– Laura.

– Se è d’accordo possiamo darci del tu.

 

Non passò molto tempo prima che si trovassero nello stesso letto.

Il sole era spuntato a illuminare le lenzuola di seta.

Il letto a baldacchino color ebano conferiva un’aria imponente alla stanza.

Per un attimo si sentí inquieta.

Riversò lo sguardo indietro  con la mossa di chi sviene, ma solo per soddisfare la curiosità di chi si sente osservata.

La donna dalle curve scolpite la guardava con aria disinvolta, poggiando la mano sinistra sulla nuca e un gomito sul sofà.

L’occhio in rilievo la guardava nella fissità di uno sguardo tracciato da mano maestra,in un pupilla legnoidea.

Laura quasi non riusciva a sostenere il suo sguardo.

Grappoli di uva a impreziosire la chioma della figura, il corpo avvolto nelle pieghe di lenzuola leggere, nonostante scolpite nella mole massiccia della testata antica.

Le estremità della testata terminavano in ornamenti trapezoidali dall’aria pomposa.

– È un Luigi XIV, apparteneva ai miei bis nonni. Questo letto ha conosciuto l’amore di generazioni.

– Wow, non ne avevo mai visto uno così.

Pensò agli ultimi anni in cui aveva fittato una stanza in appartamenti fatiscenti dalle pareti umide,pur di risparmiare qualche soldo e qualche passo dal luogo del presunto lavoro.

“Fai di necessità virtù” , le ripeteva il padre.

Lui che le aveva insegnato il valore dell’indipendenza.

Era volato via troppo presto, prima che potesse dimostrargli di aver imparato a farcela.

Quella sera fecero l’amore più volte, chiusi nell’enorme stanza della villa di periferia.

Subito dopo Laura si portò il lenzuolo al petto.

L’inconscio senso di disagio che provava la spingeva a coprire la sua stessa nudità.

Carlo aprí l’anta del comodino alto, dove aveva riposto la sua scorta di sigari.

L’accendino dorato era poggiato sul ripiano di marmo verde striato.

Accese il sigaro – con gesto consolidato- e la penombra della giornata passata si illuminò di rosso.

Come il vestito caduto ai piedi del letto.

– Vivi da solo in questa casa così grande?

– Eredità di famiglia. Mio padre era un notaio, mi ha lasciato un gran da farsi. Anche se per la gente sono “quello che non ha bisogno di lavorare” .

Nel suo sguardo intravedeva una certa malinconia.

– Non sembri felice.

Non rispose nulla e il silenzio le bastò come risposta.

– Ecco, io dovrei tornare a casa. Io… devo trovare un lavoro.

– Rilassati, stai qui con me. Io ho da sbrigare delle faccende, troverai Magda giù a servirti qualcosa da mettere nello stomaco.

Dopo tre mesi era ancora lì.

Magda non era di molte parole, ma la sua grossa presenza scura aveva un che di confortevole.

Indossava abiti colorati e sorrideva sempre.

Rinchiusa in quella gabbia dorata, Laura iniziava a sentirsi stretta.

Era un pomeriggio come gli altri. Si alzò dal letto con abituale slancio.

Era alto, ma l’ampio tappeto poggiato sul parquet scuro favoriva morbido atterraggio ai suoi piedi nudi.

Infilò la vestaglia di seta bianca e strinse il laccio in vita.

Dalla finestra riusciva a intravedere i le torri di avvistaggio del borgo, ma i cancelli alti della villa allungavano le distanze in prospettiva, terminando la salita con un piccolo albero,come quelli che si disegnano da piccoli a ridosso del sole.

Sulla scrivania posta sotto la finestra , un tagliacarte usciva da un vasetto marmeo.

Incuriosita dall’ oggetto che le ricordava lo studio del padre, Laura fece per prenderlo.

Dal vasetto  ribaltato, una piccola chiave intarsiata di decori sul ripiano rosso della scrivania.

La prese e la poggiò nel palmo della mano, per osservarla meglio.

La serratura del cassetto sottostante si sposava perfettamente con l’incastro della chiave.

“Non sono cose che mi riguardano” pensò, saggia.

La mano tremante spaccò l’aria viziata della stanza portando la chiave e la contraddizione dritte a destinazione.

Nel cassetto, solo una foto.

Laura sgranò gli occhi.

La donna in foto le somigliava , sebbene sembrasse più giovane.

Indossava un abito rosso.

– Potevi domandarmi del mio passato invece di ficcare il naso nelle mie cose.

Laura sobbalzò con passo da gambero e sentí la stretta di Carlo a bloccarle le spalle.

– Mi dispiace.

– Ci tieni tanto a sapere chi era? Era mia moglie. Tutto le ho dato, quella ragazzina non meritava il mio amore.

– Dov’è?

– È scappata, si sentiva in gabbia, ingrata.  Avrei dovuto darle una lezione seria.

Il tono della voce si fece più grosso, le sopracciglia inarcate a incorniciare la seriosità del volto.

Le  mani di Carlo le cingevano il vitino stretto. La baciò con impeto violento.

Laura non ebbe il tempo di ritirarsi dalla morsa d’acciaio di quell’ossessione soffocante, giacché un tonfo le offuscò i pensieri, prima che la pelle del viso potesse percepirne gli effetti.

– Lasciami stare. Devo andare  – replicò con flebile voce e il viso rigato da una lacrima.

Carlo chiuse la porta a chiave, poi la sollevò con maniacale riguardo sul letto e le strappò la vestaglia con forza.

– Lasciamiii, ti prego, lasciami andare.

– No, non andrai via anche tu.

La gambe tese, divaricate ad accogliere una violenza che si consumò in macchie rosse, avide di una vendetta che non avrebbe mai trovato compimento.

Rouge.

Era tutto quello che le veniva in mente mentre il cervello iniziava ad annebbiarsi e il corpo ad arrendersi all’assuefazione di movenze meccaniche che puzzavano di sudore e di viltà.

La commessa e il suo sorriso, il vestito, l’amore dichiarato, la violenza resa.

Recuperò tutto il fiato che le era rimasto per emettere un grido soffocato.

Nessuno l’avrebbe sentita.

Il corpo,ormai livido, implorava pietà.

La sera era calata. Dai vetri della finestra un bagliore rosso.

Pensò di avere le allucinazioni.

Quella sera Carlo fu arrestato.

Magda aveva regalato a Laura la nuance più brillante di rosso che avesse mai desiderato.

– Eravamo due amanti, te ne pentirai.

“Non dissi nulla, non ne avevo la forza. Ma pensai di nuovo al rosso. Alle fiamme dell’inferno dove avrei voluto che andasse, senza seguirlo”.

Magda denunciò tutti gli abusi compiuti da Carlo sulla moglie.

Da quando era alla villa non aveva più cantato, come faceva nella sua famiglia d’origine.

Quella sera, tuttavia, fu felice di cantare le misfatte di quell’uomo.

– Avevo tenerezza della solitudine di signore. Lui dava casa a me. Ma signore è un mostro.

Passò un mese dalla triste vicenda. Nel borgo tutti si chiedevano perché la villa fosse sotto sigilli.

Iniziarono a raccontare storie infinite sul conto di quel signore.

A Laura era capitato di sentirle al bar del centro, mentre sorseggiava l’unico rouge che ancora si concedeva.

“Ero un adolescente insicura, dalle forme abbondanti. Ho sempre cercato di sparire.

Ero inciampata nell’unico uomo che avrebbe dovuto darmi la sicurezza che non avevo, che avrebbe dovuto portarmi lontano da qui.

Mi ha portato lontano da me, schiaffeggiando le mie pseudo certezze, violando la mia libertà di donna e di persona.

Per un attimo, nella mia vita, ho pensato di meritare quella che ero diventata .

Quella sera sono scappata dal mio orco travestito da principe, grazie al colore delle sirene chiamato in soccorso dalla donna di colore.

Sono nata quella notte lí.

Non un giorno prima.

Non un giorno dopo”.

Laura firmò così la deposizione e se ne andò, con la sua nuova vita.

Dopo tre mesi, seduta al bar, si godeva la serata.

Prima di salire a dormire nello scomodo adorato letto del suo appartamento fatiscente, passò in lavanderia.

– Il suo abito è pronto, signora.

–  La ringrazio.

– Complimenti, è molto bello. Che tonalità di rosso è?

– Rouge.

Con colpo deciso Laura  lasciò i soldi sul bancone e andò via.

L’indomani aveva un colloquio. Si sarebbe vestita di consapevolezza.

 

Aurora Ariano

 

– Dedicato a tutte le donne vittime di violenza. Questo racconto, scritto sottoforma di storytelling, è ispirato alle emozioni autentiche di una donna conosciuta su Twitter che mi ha aperto il cuore –

 

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